Intervento protesi di ginocchio

Informazioni per l’intervento di protesi di ginocchio: prima,durante e dopo l’intervento chirurgico.

L’articolazione del ginocchio si compone dai condili del femore (osso della coscia), dalla tibia (osso della gamba), dalla rotula e dal menisco. Le superfici di queste ossa sono rivestite da una sostanza liscia e morbida nota con il nome di cartilagine articolare. Un’usura progressiva della cartilagine provoca l’artrosi, causa di deformazione, perdita di mobilità e dolore. Il trattamento dell’artrosi di ginocchio si concentra sulla diminuzione del dolore e sul miglioramento della mobilità dell’articolazione. Quando i metodi di trattamento di conservazione non sono riusciti a procurare il sollievo desiderato, può essere presa in considerazione la sostituzione dell’articolazione del ginocchio.
Cause di artrosi (gonartrosi)

  1. Aumento di peso
  2. Morfologia degli arti inferiori (ginocchio varo o valgo)
  3. Malattie infiammatorie (artrite reumatoide ecc )
  4. Malattie dell’osso a livello dei condili femorali (osteonecrosi)
  5. Postumi di fratture articolari di ginocchio e la rottura dei legamenti crociati o dei menischi

PROTESI DI GINOCCHIO

Per intervento di protesi di ginocchio si intende la sostituzione dell’articolazione del ginocchio mediante protesi (un’articolazione artificiale). In generale queste protesi sono utilizzate per sostituire la cartilagine distrutta dal processo artrosico. Come in un ginocchio “normale” le componenti della protesi sono lisce e sono composte da una componente femorale, una tibiale e a volte una rotulea. L’ortopedico sceglierà il tipo di protesi, con o senza l’uso di un cemento speciale per aderirla all’osso, durante l’intervento. Le protesi vengono utilizzate solo in caso di grave artrosi, generalmente in età superiore ai 65 anni, solo occasionalmente in pazienti più giovani. Il ginocchio “artificiale” consente di migliorare i sintomi e di tornare alle normali attività quotidiane, non consente invece di fare sport o lavori pesanti.

PRIMA DELL’INTERVENTO

Prima dell’intervento sono previsti gli accertamenti preoperatori di routine, la visita medica, dove verrà valutata la terapia in corso e la necessità di richiesta di emocomponenti e il colloquio con l’anestesista per la scelta dell’anestesia. Verranno fornite le indicazioni di preparazione all’intervento (dieta, depilazione, doccia, ecc) e i presidi di cui dovrà fornirsi.

IL GIORNO DEL RICOVERO

Il ricovero è previsto il giorno precedente l’intervento o la mattina stessa. La sera precedente l’intervento, la cena deve essere leggera e deve essere eseguito un clistere evacuativo. Il giorno dell’intervento viene posizionato il catetere vescicale.

IL POST OPERATORIO

All’uscita dalla sala operatoria, il paziente viene mantenuto monitorato per avere il controllo dei parametri vitali e della scala del dolore. L’arto operato è chiuso, a discrezione medica, in una ginocchiera protettiva in gommapiuma. Nella ferita, sulla quale viene posizionata la borsa del ghiaccio, è inserito un drenaggio che permette la fuoriuscita del sangue accumulatosi nei tessuti in seguito all’intervento; tale drenaggio è provvisto di un dispositivo che permette la reinfusione endovenosa del sangue. Viene infusa la terapia endovenosa a ciclo continuo per alcuni giorni e verrà praticata un’iniezione sottocutanea di un farmaco antitromboembolico su prescrizione medica. Se il paziente non presenta nausea, può assumere liquidi e/o solidi su indicazione del personale infermieristico.

IL DOLORE POST OPERATORIO

Al termine dell’intervento l’anestesista definisce, in relazione all’intensità del dolore post operatorio, il trattamento antalgico che proseguirà per 24-48 ore. Il dolore verrà monitorato per tutta la durata della degenza, e in caso di necessità è prevista una ulteriore somministrazione di analgesico.

PRIMA GIORNATA

In mattinata viene rimosso il drenaggio e medicata la ferita chirurgica, eseguirà una radiografia di controllo e verranno posizionate le calze elastiche. Se le condizioni lo permettono il paziente si alimenta e viene messo seduto con le gambe fuori dal letto.

SECONDA GIORNATA

In mattinata viene rimosso il catetere vescicale e controllata la medicazione. In giornata verrà praticato un clistere evacuativo e inizierà la fisiochinesiterapia passiva con l’utilizzo del Kinetec.

TERZA GIORNATA

Continua la fisioterapia passiva con Kinetec e inizia la fisioterapia attiva.

DALLA SETTIMA GIORNATA ALLA DIMISSIONE

Dopo circa 7 giorni dall’intervento chirurgico, il paziente viene trasferito nel reparto di riabilitazione, dove prosegue il programma fisioterapico iniziato nel reparto di ortopedia. Tra gli obiettivi vi è una riduzione del dolore, un recupero dell’articolarità del ginocchio, del tono-trofismo muscolare e la ripresa di un cammino in autonomia.  Durante il trattamento riabilitativo è importante ridurre il gonfiore, il dolore e l’infiammazione con ghiaccio, terapia antalgica e antinfiammatoria adeguata. Ogni giorno il paziente si reca in palestra seguito dal fisioterapista, per svolgere gli esercizi di mobilizzazione attiva e passiva al ginocchio operato, rinforzo muscolare, TENS ed Elettrostimolazione del quadricipite (se non vi sono controindicazioni), rieducazione al passo con 2 stampelle e carico progressivo sull’arto operato. Il paziente viene istruito prima della dimissione alle attività quotidiane più comuni, da eseguire in sicurezza, quali: salire e scendere le scale, raccogliere un oggetto da terra, mettere le scarpe, salire in macchina, ecc.

Alla dimissione viene consegnata una relazione clinica che riporta le condizioni di salute del paziente, le indicazioni per la terapia da seguire a domicilio, le indicazioni per un eventuale monitoraggio clinico-terapeutico e l’appuntamento per il controllo medico. Saranno fornite inoltre dal fisioterapista gli esercizi da eseguire al domicilio.

DOPO LA DIMISSIONE

A domicilio il paziente prosegue il trattamento riabilitativo ai fini di un completo recupero funzionale del ginocchio operato. Dopo circa un mese dall’intervento è previsto un controllo ortopedico (visita medica e radiografia), durante il quale il medico darà indicazioni sull’abbandono prima di una stampella (del lato operato) e successivamente dell’altra.

COMPLICANZE POST OPERATORIE

  • Dolore e gonfiore al ginocchio;
  • Trombosi delle vene profonde della gamba;
  • Lussazione del ginocchio o della rotula;
  • Infezione del ginocchio;
  • Embolia polmonare;
  • Rigidità del ginocchio;
  • Lesioni vascolari o nervose;
  • Scollamento della protesi.

IL RITORNO A CASA

A domicilio, il paziente potrà gradualmente riprendere le proprie attività quotidiane e in seguito tornare all’attività lavorativa, eventualmente sportiva dopo parere medico. E’ importante ricordare che la nuova articolazione del ginocchio è relativamente non protetta fino a quando la muscolatura dell’arto inferiore non avrà riacquistato un adeguato tono-trofismo muscolare.

 

10 REGOLE IMPORTANTI

  1. Utilizzare sempre le stampelle fino al controllo ortopedico;
  2. Alzarsi e sedersi dal letto, sedia, poltrona senza fretta; con le stampelle in mano alzarsi in piedi, attendere qualche secondo, se non compaiono vertigini si può camminare;
  3. Non avendo ancora un equilibrio ottimale sedersi non appena si è stanchi;
  4. Continuare ad eseguire la ginnastica che ha mostrato il fisioterapista;
  5. Continuare ad assumere le terapie (in particolare i farmaci di profilassi antitromboembolica) per tutto il periodo indicato alla dimissione;
  6. Dormire in posizione supina (pancia in su);
  7. Calzare scarpe con tacco basso e suola antiscivolo indossare ciabatte o pantofole aperte;
  8. Eliminare tutto ciò che può ostacolare o rendere insicuro il cammino come tappeti, cera per pavimenti, cavi elettrici, ecc.;
  9. PreferiRe la doccia al bagno per la minor possibilità di scivolare e cadere;
  10. Usare tappetini antisdrucciolo in bagno e maniglie d’appoggio.

Intervento protesi d’anca

Informazioni per l’intervento di protesi d’anca: prima, durante e dopo l’intervento chirurgico

L’articolazione dell’anca si compone della testa femorale e della cavità acetabolare. Con la degenerazione dell’articolazione, il dolore, la limitazione e la zoppia si accentuano e l’arto rimane in atteggiamento di flessione ed extrarotazione. Compare dolore con difficoltà a deambulare e limitazione ai movimenti con artrosi.

CAUSE DI ARTROSI

  1. Artrosi primitiva
  2. Artrosi secondaria: pregressa frattura o lussazione dell’anca, displasia congenita dell’anca esiti di osteocondrite.
  3. Artrite settica
  4. Artrite reumatica
  5. Necrosi:
    • idiopatica
    • esiti di frattura o lussazione dell’anca
    • esiti di frattura del collo del femore
    • trattamento prolungato con cortisone

PROTESI DELL’ANCA

Con l’impianto di una protesi d’anca si sostituiscono le parti dell’articolazione ormai irreparabilmente degenerate. Esistono tre tipi di protesi:
– Protesi cementate fissate all’osso con l’ausilio di materiale acrilico (cemento)
– Protesi non cementate che sfruttano l’integrazione fra le componenti e l’osso
– Protesi di rivestimento

La scelta fra i tipi di protesi viene dettata sia dallo stato di mineralizzazione dell’osso ospite, sia dall’età del paziente. E’ importante comunque segnalare che ciascun paziente presenta caratteristiche cliniche e di struttura ossea diversa per cui la scelta è personalizzata. Su indicazione medica occorrerà eliminare con un’adeguata dieta l’eventuale eccesso ponderale.

PRIMA DELL’INTERVENTO

Prima dell’intervento sono previsti gli accertamenti pre-operatori di routine e vengono fornite  le indicazioni di preparazione all’intervento (dieta, depilazione, doccia, ecc). Durante la visita medica viene rivalutata la terapia in corso e la necessità di richiesta di emocomponenti (sangue autologo o omologo). E’ previsto il colloquio con l’anestesista per la scelta del tipo di anestesia.

IL POST OPERATORIO

All’uscita dalla sala operatoria, il paziente viene mantenuto monitorato per avere il controllo dei parametri vitali e della scala del dolore. L’arto operato, in leggera flessione e in abduzione, è contenuto in una valva protettiva in gomma piuma, che evita l’accavallamento degli arti che può essere causa di lussazione (fuoriuscita della protesi dalla sua sede). Nella ferita, sulla quale viene posizionata la borsa del ghiaccio, è inserito un drenaggio che permette la fuoriuscita del sangue accumulatosi nei tessuti in seguito all’intervento; tale drenaggio è provvisto di un dispositivo che permette la reinfusione endovenosa del sangue. Viene infusa la terapia endovenosa a ciclo continuo per alcuni giorni e verrà praticata un’iniezione sottocutanea di un farmaco antitromboembolico prescritto dal medico. Il paziente può assumere liquidi e/o solidi dopo consenso dell’infermiere. Al termine dell’intervento, l’anestesista definisce, in relazione all’intensità del dolore, il trattamento antalgico che proseguirà per 24-48 ore. Il dolore verrà monitorato per tutta la durata della degenza e in caso di necessità è prevista una ulteriore somministrazione di antidolorifico.
Prima giornata: In mattinata viene rimosso il drenaggio e medicata la ferita chirurgica, eseguita una radiografia di controllo e posizionate le calze elastiche. La valva viene sostituita da un cuscino da tenere in mezzo alle gambe. Se le condizioni lo permettono il paziente si alimenta e viene messo seduto con le gambe fuori dal letto.
Seconda giornata: In mattinata viene rimosso il catetere vescicale e controllata la medicazione. In giornata viene praticato un clistere evacuativo e se le condizioni lo permettono viene seduto in sedia.
Terza giornata: Il paziente inizia la fisiochinesiterapia.
Dalla quarta giornata, se le condizioni del paziente lo permettono, viene accompagnato in palestra per eseguire la fisioterapia. Controllo e cambio medicazione al bisogno. In settima giornata è previsto il trasferimento nel reparto di riabilitazione. Prima della dimissione, il paziente viene istruito per eseguire in sicurezza le attivita’ quotidiane piu’ comuni quali: salire e scendere le scale, mettere le scarpe, salire in macchina, raccogliere oggetti da terra, ecc.

I nostri ginecologi informano

Screening Biochimico (Duotest o Bitest), Villocentesi e Amniocentesi

SCREENING BIOCHIMICO (DUOTEST O BITEST). A COSA SERVE?

La Trisomia 21 o Sindrome di DOWN è una delle più frequenti anomalie cromosomiche ed è una delle principali cause di ritardo mentale.

La frequenza di tale sindrome nei neonati è di circa 1/700 – 1/900. L’incidenza di tale anomalia aumenta in modo significativo con l’età materna. Tuttavia, circa il 70 % dei bambini affetti nasce da donne di età inferiore a 35 anni per cui per una efficace prevenzione è stato necessario affiancare altre strategie a quella basata esclusivamente sull’età materna. Attualmente la diagnosi di Sindrome di Down è possibile mediante la determinazione del cariotipo fetale tramite il prelievo dei villi coriali (VILLOCENTESI) o del liquido amniotico (AMNIOCENTESI).

Negli ultimi anni numerosi lavori hanno dimostrato che la determinazione di alcuni parametri biochimici nel siero materno possono contribuire ad identificare le gravidanze a rischio abbastanza alto per la sindrome di Down e di altre patologie cromosomiche e che, diversamente dalla villocentesi o dall’amniocentesi, non presentano rischi per la gestante. Infatti sebbene le due metodiche siano disponibili da più di vent’anni, tali procedure invasive possono essere usate solo selettivamente a causa del rischio di abortività (1%).

Il BiTest pertanto è un test di screening per la sindrome di Down, che calcola il rischio sulla base di tre parametri: l’età materna (rischio di base), l’epoca gestazionale e lo spessore della translucenza nucale.

La translucenza nucale è lo spessore della cute del feto a livello del collo (vedi figura pag successiva) ed è presente in tutti i feti. Quando tale spessore aumenta, aumenta il rischio della sindrome di Down.

Il BiTest viene eseguito al primo trimestre, tra le 11 e le 13 settimane di gestazione, quando il CRL (misura della lunghezza fetale, misurata tra il vertice del cranio e l’osso sacro) è compreso tra 45 e 84 mm. Se il CRL è inferiore a 45mm, verrà prenotato un altro appuntamento nella settimana successiva. Se il CRL è superiore a 84 mm, non sarà possibile eseguire il test.

Il software per il calcolo del rischio di avere un feto affetto dalla sindrome di Down si basa su studi effettuati su oltre 100.000 pazienti, pubblicati dal gruppo di Professor K. Nicolaides del King’s College Hospital di Londra.

La misurazione della translucenza nucale viene eseguita secondo determinati criteri, e solo gli operatori accreditati (che cioè hanno superato con successo un esame teorico e una prova pratica) possono eseguire tale misurazione.

COME E QUANDO SI ESEGUE IL BITEST.

Lo screening, basato su di un semplice prelievo di sangue materno unitamente ad una ecografia particolare dell’area della nuca fetale, si esegue circa alla 11° – 13° settimana di gravidanza.
Una elaborazione computerizzata dei parametri rilevati permette di quantificare il rischio di sindrome di Down e di altre cromosomopatie.
Una corretta datazione ecografica dell’età gestazionale materna è estremamente utile per calcolare un indice di rischio accurato.

Si precisa che QUANTIFICARE IL RISCHIO non vuole dire assolutamente FARE DIAGNOSI DI SINDROME DI DOWN, per cui la eventuale positività del test non indica sicuramente presenza di patologia in atto ma solo la necessità di approfondire le indagini.

Alla luce di quanto esposto lo screening biochimico della sindrome di Down e delle altre cromosomopatie è un utile approccio per le donne con età a basso rischio, per selezionare fra esse quelle a rischio aumentato a cui consigliare la Villocentesi o l’Amniocentesi.

La Trisomia 21 o SINDROME DI DOWN è una delle principali anomalie cromosomiche ed è una delle principali cause di ritardo mentale e problemi fisici come difetti cardiaci o difficoltà di vista e udito. La sindrome di Down è causata dalla presenza di un cromosoma 21 soprannumerario nelle cellule fetali. In assenza dello screening, circa 1 bambino su 700 nasce con la Sindrome di Down. Solitamente non è ereditaria e così un bambino può risultare affetto anche se non c’è una storia familiare di Sindrome di Down. Esistono altri due tipi, seppure meno frequenti, di anomalie cromosomiche con gravi conseguenze fetali quali la TRISOMIA 13 e 18.

La frequenza delle anomalie cromosomiche cresce con l’aumentare dell’età materna. Per poter effettuare una “prevenzione” delle malattie cromosomiche è necessario utilizzare dei test di screening applicabili su tutta la popolazione in stato di gravidanza, possibilmente in un’epoca precoce della gravidanza stessa.

Il DUOTEST O BITEST, applicabile ad una popolazione di gravide alla 11-13 settimana fino al 35° anno di età, ha con un tasso di rilevamento per la sola Sindrome di Down attorno all’86%.

Lo screening è basato su un semplice prelievo di sangue su cui viene dosata la proteina PAPP-A assieme alla frazione libera beta dell’ormone HCG , associando l’età materna e la misurazione ecografica della Translucenza Nucale in modo da poter effettuare una valutazione statistica del rischio di Sindrome di Down.

La risposta è fornita solo in termini di probabilità sulla base dell’esame eseguito; questa probabilità è espressa con un valore numerico (es. 1:2000 significa che la probabilità che in quella gravidanza il feto sia affetto da Sindrome di Down è di un caso su 2000).
Il test identifica quelle donne che presentano un rischio aumentato per la Sindrome di Down mentre non è in grado di fornire la diagnosi della presenza di Sindrome di Down.

Un rischio è la possibilità che un evento accada. Avere uno screening positivo significa appartenere ad un gruppo di donne con un rischio più alto di avere un feto affetto da S. di Down.
Il risultato è considerato positivo se il rischio è di 1:350 o più grande. Se il rischio rientra in questi parametri, è possibile eseguire un test diagnostico invasivo quale la VILLOCENTESI O L’AMNIOCENTESI.

D’altra parte se il rischio è più piccolo (es. 1:1000) significa che la gestante appartiene ad una popolazione con rischio diminuito. Questo, però, non significa escludere la possibilità che ci sia una gravidanza con sindrome di Down perché, essendo basato solo su di un calcolo statistico, il test di screening non può completamente distinguere le gravidanze con sindrome di Down da quelle senza sindrome di Down.

Il prelievo ematico periferico viene eseguito nella stessa seduta, dopo aver effettuato la misurazione ecografica della Translucenza Nucale, ed inviato presso il laboratorio analisi.

Se il rischio risulta aumentato o sotto il valore di CUT-OFF di 1:350, la donna viene invitata ad eseguire, qualora lo desideri, l’accertamento diagnostico precoce mediante il prelievo dei villi coriali (VILLOCENTESI) o più tardivo mediante il prelievo del liquido amniotico (AMNIOCENTESI).

Entrambe le procedure invasive di diagnosi prenatale comportano un rischio di aborto pari all’ 1%, come riportato da tutta la letteratura scientifica mondiale.


VILLOCENTESI. A COSA SERVE?

Esame diagnostico invasivo che consente di individuare le più frequenti cromosomopatie (es. Sindorme di Down), le anomalie legate ai cromosomi del sesso e le più frequenti anomalie genetiche, tramite il prelievo dei villi coriali (parte embrionale della placenta). Nonostante sia un esame che al momento non viene effettuato presso le nostre strutture, vogliamo comunque dare qualche informazione in merito.

VILLOCENTESI. QUANDO SI ESEGUE?

Si esegue tra la 11 e la 13 settimana, per puntura trans addominale sotto guida ecografica, senza l’utilizzo di anestesia. Non è necessario il digiuno. La paziente deve portare un referto di analisi di laboratorio che attesti il proprio gruppo sanguigno e il fattore RH, portare la datazione ecografica precedente, leggere e firmare un consenso informato.

Secondo la letteratura il rischio di complicanze, incluso l’aborto, risulta dipendente da diverse variabili cliniche. Il rischio generale di aborto, desunto dalla letteratura mondiale, è di 1/100, ma entità e qualità di tale rischio devono essere valutati dallo specialista Ginecologo-Ostetrico, che potrà anche disporre una eventuale tipologia di prelievo differente in funzione di epoca gestazionale e di specifiche valutazioni cliniche. E’ possibile richiedere indagini di diagnostica molecolare, che rilevano la presenza delle sindromi più diffuse come quella di Down, Edward e Patau, con referto urgente (entro 48 ore ). E’ possibile richiedere alcune indagini aggiuntive sul prelievo del liquido amniotico, come la ricerca dell’X fragile, mutazione della sordità congenita, mutazione della fibrosi cistica, GCH ARRAY (Tecnica che permette di identificare circa 80 anomalie genetiche). La risposta è composta generalmente da due distinte analisi: una prima si effettua mediante coltura breve di citotrofoblasto e fornisce risposta in una settimana circa. La seconda coltura (mesenchimale) consente il completamento dell’analisi in circa 15/20 giorni. In caso di risultato patologico della prima analisi è opportuno effettuare una consulenza genetica per una specifica valutazione dell’affidabilità del risultato parziale.

L’esame può non dare risultato a causa di problemi tecnici relativi al prelievo od alla coltura cellulare (1% dei casi circa). In tale eventualità può essere successivamente effettuata un’amniocentesi. Per quanto riguarda la Sindrome di Down, il test può dare errore diagnostico con probabilità inferiore a 1/1000. Sui villi coriali non può essere eseguito il dosaggio dell’alfafetoproteina.

Qualora l‘analisi dei villi coriali sia eseguibile unicamente su preparato diretto (per insufficiente quantità del prelievo o fallimento della coltura) è riconosciuto un rischio di falso negativo di 1:3000. In circa l’ 1% dei casi il risultato citogenetico è tale da lasciare adito a dubbi interpretativi.
In tali casi possono rendersi opportuni approfondimenti specifici. Tali approfondimenti possono prevedere ulteriori indagini sul campione di liquido stesso, indagini su campioni da prelievi di sangue della paziente e del partner o, in alcuni rari casi, può essere opportuno eseguire una successiva amniocentesi.

In pazienti sottoposte a terapie epariniche o con antiaggreganti piastrinici è suggerita la sospensione del farmaco 24 ore prima dell’esame. Dopo la villocentesi si consigliano tre giorni di riposo. E’ consigliato di astenersi da attività fisica intensa (es. jogging o aerobica) per almeno uno o due giorni. Grazie ad uno studio randomizzato e controllato si è dimostrato che la profilassi antibiotica prima della villocentesi abbatte di circa il 90% gli aborti, passando da un episodio ogni 500 donne (0,2%) a uno ogni 3.400 pazienti (0,03%) che si sottopongono a questo tipo di esame prenatale. Pertanto, tre giorni prima dell’esame è consigliato l’utilizzo di un’antibiotico della famiglia dei macrolidi. Alle donne Rh negative si pratica una iniezione intra-muscolo di immunoglobuline, per cui i risultati di analisi di routine praticate mensilmente ( Test di Coombs ) saranno sfalsati per circa 6 settimane.

AMNIOCENTESI. A COSA SERVE?

Esame diagnostico invasivo che consente di individuare le più frequenti cromosomopatie ( es. Sindrome di Down ), le anomalie legate ai cromosomi del sesso e le più frequenti anomalie genetiche, tramite il prelievo di liquido amniotico.


AMNIOCENTESI.
QUANDO SI ESEGUE?

Si esegue tra la 15 e la 18 settimana per puntura trans addominale sotto guida ecografica, senza l’utilizzo di anestesia. Non è necessario il digiuno. La paziente deve portare un referto di analisi di laboratorio che attesti il proprio gruppo sanguigno e il fattore RH, portare la datazione ecografica precedente, leggere e firmare un consenso informato.

Il prelievo di liquido amniotico presenta secondo letteratura un rischio di complicanze, incluso l’aborto, che risulta dipendente da diverse variabili cliniche. Il rischio generale di aborto, desunto dalla letteratura mondiale, è di 1/200, ma entità e qualità di tale rischio devono essere valutati dallo specialista Ginecologo, che potrà anche disporre una eventuale tipologia di prelievo differente in funzione di epoca gestazionale e di specifiche valutazioni cliniche.

La risposta è disponibile in circa tre settimane (21 giorni). L’esame può non dare risultato a causa di problemi tecnici relativi al prelievo o alla coltura cellulare (meno di 1% dei casi). Tale evento viene segnalato dopo circa 10-15 giorni. Eventualmente il prelievo potrebbe essere ripetuto. E’ possibile richiedere indagini di diagnostica molecolare, che rilevano la presenza delle sindromi più diffuse come quella di Down, Edward e Patau, con referto urgente (entro 48 ore ). E’ possibile richiedere alcune indagini aggiuntive sul prelievo del liquido amniotico, come la ricerca dell’X fragile, mutazione della sordità congenita, mutazione della fibrosi cistica, GCH ARRAY (Tecnica che permette di identificare circa 80 anomalie genetiche).

Per quanto riguarda la Sindrome di Down, il test può dare errore diagnostico con probabilità inferiore a 1/1000. In circa lo 0,3% dei casi il risultato citogenetico è tale da lasciare adito a dubbi interpretativi. In tali casi possono rendersi opportuni approfondimenti specifici. Tali approfondimenti possono prevedere ulteriori indagini sul campione di liquido stesso, indagini su campioni da prelievi di sangue della paziente e del partner o, in alcuni rari casi, può essere opportuno eseguire una successiva funicolocentesi.

Oltre al cariotipo il Ginecologo può richiedere un dosaggio di alfafetoproteina. Alterazioni del dosaggio possono essere associate ad anomalie congenite fetali (spina bifida e altre): la valutazione è di competenza del Ginecologo che potrà eventualmente avvalersi della consulenza del genetista.

In pazienti sottoposte a terapie epariniche o con antiaggreganti piastrinici è suggerita la sospensione del farmaco 24 ore prima dell’esame. Dopo l’amniocentesi si consigliano tre giorni di riposo. E’ consigliato di astenersi da attività fisica intensa (es. jogging o aerobica) in questi giorni.
Grazie ad uno studio randomizzato e controllato si è dimostrato che la profilassi antibiotica prima della amniocentesi abbatte di circa il 90% gli aborti, passando da un episodio ogni 500 donne (0,2%) a uno ogni 3.400 pazienti (0,03%) che si sottopongono a questo tipo di esame prenatale.
Pertanto, tre giorni prima dell’esame è consigliato l’utilizzo di un’antibiotico della famiglia dei macrolidi. Alle donne Rh negative si pratica una iniezione intra-muscolo di immunoglobuline, per cui i risultati di analisi di routine praticate mensilmente ( Test di Coombs ) saranno sfalsati per circa 6 settimane.

Sonosalpingografia

E’ un esame non invasivo per la valutazione della pervietà tubarica

Negli ultimi 10 anni la medicina della riproduzione ha ottenuto notevoli miglioramenti, sia per quanto riguarda la diagnosi che la cura della sterilità. Una grande innovazione, in questi termini, è costituita dalla messa a punto di un esame non invasivo per la valutazione della pervietà tubarica, che viene detto SONOSALPINGOGRAFIA (in inglese “Hystero-Contrast Sonosalpingography”).

E’ un esame diagnostico in grado di valutare, in una donna che cerca una gravidanza, la pervietà o meno delle salpingi, le tube appunto. Ancora oggi infatti, il 40% dei casi di sterilità sono dovuti alla chiusura (impervietà) delle salpingi.

La sonosalpingografia è un esame ambulatoriale, che dura circa 15-20 minuti, non richiede anestesia generale ne’ la somministrazione di farmaci. Si esegue nel corso di una ecografia transvaginale, dopo aver inserito un sottile catetere sterile monouso all’interno dell’utero. Quindi, attraverso di esso vengono introdotte nella cavità uterina alcune gocce di soluzione fisiologica.
Questa prima parte viene detta anche SONOISTEROGRAFIA e serve a studiare dettagliatamente la morfologia della cavità uterina, e ad escludere eventuali patologie al suo interno (polipi, fibromi, malformazioni uterine).
Quindi un piccolo quantitativo di aria viene inserito all’interno dell’utero: successivamente con l’ecografia se ne valuta il passaggio attraverso le salpingi.

I vantaggi sono innumerevoli. Anzitutto, la donna ottiene informazioni circa lo stato della pervietà delle sue tube, senza dover sottoporsi alla anestesia generale ed al ricovero in ospedale, come per la laparoscopia diagnostica.
Inoltre questo esame, impiegando gli ultrasuoni, che sono assolutamente innocui, non ha alcun effetto collaterale.
Pertanto oggi la SONOSALPINGOGRAFIA dovrebbe costituire l’esame di prima scelta nella valutazione della donna sterile, riservando la laparoscopia diagnostica solo per i casi in cui le tube risultino chiuse o la paziente abbia subito precedentemente interventi chirurgici sull’apparato genitale interno (utero-ovaia-tube).

Il momento migliore per eseguire questo esame, è rappresentato dalla prima metà del ciclo mestruale, possibilmente nei giorni che seguono la comparsa del flusso. In questi giorni infatti la visualizzazione della cavità uterina e delle salpingi è resa più facile, e si è sicuri che la donna non sia già gravida.